Abstract:
|
Nel settembre del 1984 venne pubblicato a Torino il libro intitolato Gli ultimi yanomami. Nella copertina figura anche il sottotitolo Un tuffo nella preistoria. All’epoca avevo già vissuto per quattro anni nell’area del Catrimâni, operando con e a favore degli indios yanomami, trascorrendo con loro gli anni più felici della mia vita. Poiché i miei sforzi professionali derivavano dall’esigenza di contribuire alla sopravvivenza fisica e culturale degli yanomami, la parola “ultimi” mi indignò alquanto. Nel luglio del 2017 il Corriere della sera ha pubblicato un reportage, uno dei sottotitoli del quale è “La preghiera degli ultimi yanomami”. Dal 1984 al 2017 sono trascorsi trentatré anni, eppure in Italia, riferendosi a questa etnia, si utilizzano le stesse banali, stereotipate parole. Nel gennaio del 2018 è andata in onda su RAI-TRE l’intervista fattami da Sveva Sagramola. Un’amica, sessantottina e giornalista, mi ha scritto: “Certo, il fatto che siano raddoppiati, che si salvaguardano da soli (bene!) ha tolto un po’ di carica emotiva… che cosa possiamo fare noi per loro? O loro per noi?” |