Abstract:
|
I segni, i residui colti possono avere la potenzialità di “barbagli di immagini”, per riprendere l’espressione usata da Gianni Celati, da cui scaturiscono pensieri, storie, ricordi. Questi sono appunto dei momenti unici, delle aperture, degli scarti vitali, che sospendono nella frenesia quotidiana il meccanicistico modo di vedere e rapportarsi con l’esterno, cioè con quello che è davanti a noi e a cui, al contempo, apparteniamo. Il laboratorio artistico di Gianni Celati ha la tendenza a mettere in atto proprio questo processo del vedere, il quale richiede sempre una distanza, fisica e non (“Basta pensare a quante cose non avrebbero senso se dovessimo abolire le nostre proiezioni immaginative e ridurre tutto a conoscenza positiva”[1]). Se da un lato, infatti, un paesaggio o un oggetto qualsiasi più si avvicina ai nostri occhi e meno visibile diventa, perdendo l’originaria nitidezza di dettagli e diventando una massa o, per meglio dire, una macchia – a volte amorfa – solo con qualche tono di colore, dall’altro, invece, lo stesso paesaggio o oggetto, quando viene allontanato, offre ulteriori capacità immaginative e compositive che vengono messe in scena proprio a causa della distanza. Difatti, quando qualcosa ci tocca, in un attimo tante operazioni s’incrociano, come per esempio quelle dell’affettività, della reminiscenza, dell’oblio e del fantasticare. |